Notte di luna piena, Cassino 1944

Notte di Luna Piena – Cassino 1944

Era da circa un paio di ore che eravamo rintanati nella nostra postazione, alla base di quota 593, l’avevamo raggiunta quando il sole era calato, strisciando per non essere visti.

Avevamo salutato i camerati, preso le munizioni, un po’ di cibo le granate ed eravamo scesi in direzione della casa del dottore, davanti a noi la terra di nessuno, da dove ogni notte partivano gli attacchi del nemico.

Camminare piegati, strisciare a volte, con le cassette dei colpi della mitragliatrice e le granate, era difficile, avevamo paura che un nostro rumore avrebbe rivelato la nostra posizione, scatenando l’inferno.

Entrammo come due volpi nella tana e ci sistemammo, erano gesti ripetuti e collaudati da tempo, il posizionamento delle cassette, il binocolo, l’angolo delle razioni di cibo, dopo qualche minuto eravamo pronti a scrutare l’orizzonte davanti a noi nel più totale silenzio.

In lontananza gli echi dell’artiglieria e dei mortai erano continui, ma in quella notte, almeno dalla nostra parte sembrava tutto calmo.

Era una notte di luna piena, una strana luce avvolgeva tutto, i monconi degli alberi bruciati sembravano cavalieri delle tenebre che brandeggiavano spade e lance su cavalli rinsecchiti, le pietre riflettevano la luce bianca della luna, illuminandosi delle tonalità del grigio e del blu, la terra sembrava ricoperta di cenere bianca.

Le ombre degli alberi spezzati si muovevano nel terreno per effetto di qualche nube che oscurava la luna e ci tenevano in allarme, perché da quella valle davanti a noi, nella notte, arrivavano strisciando fino alle nostre tane per tagliarci la gola.

Fissavamo il vuoto dalla feritoia dalla quale spuntava solo la canna della mitragliatrice, i nostri volti erano in parte illuminati, ognuno di noi vedeva il profilo dell’altro, nel buio della tana.

Osservavo il mio nuovo servente alla mitragliatrice, non aveva nemmeno 20 anni, il Fuhrer stava raschiando il barile, la carne era finita anche in Germania.

Il volto era molto più piccolo del suo elmetto nuovo, dove a volte mi soffermavo a vedere l’aquila dei Fallschirmjäger nuova e immacolata, la mia ormai non si vedeva più e forse era volata via anche dal mio cuore.

I suoi occhi, visti di profilo, erano lucidi e vivi, ed aveva poca barba, segno della giovane età; continuava a deglutire, forse per il nervoso, ma non ebbi il coraggio di chiederlo, controllava in continuazione il nastro della mitragliatrice, aveva il terrore che si bloccasse, ma l’arma che avevamo in dotazione non dava il tempo al nastro di ragionare.

I nostri sguardi si incrociavano spesso, qualche sorriso, qualche respiro più forte, ma per il resto solo il silenzio e l’odore dei nostri corpi e delle nostre divise che non vedevano acqua e sapone da troppo tempo.

La calma di quella notte ci diede modo di parlare.
“pensi che attaccheranno?” mi disse sottovoce
“con questa luna piena, devono essere dei pazzi” risposi.

Sembrò tranquillizzarsi a quelle mie parole, ma dopo qualche secondo riprese a stendere il nastro della mitragliatrice facendo scorrere la mano lungo la fila dei bossoli come fossero i capelli della sua donna.

“hai una donna che ti aspetta in Germania?” gli chiesi.

il suo silenzio fu più chiaro delle parole.
Si piegò di un lato, apri la divisa e ne estrasse una piccola foto in bianco e nero, che poi tese verso di me.

In quella notte di luna piena non fu difficile vedere l’immagine, la spostai solo di poco verso la feritoia per approfittare della luce bianca offerta dal cielo.

Era bellissima, bionda, forse bavarese, la foto doveva essere stata scattata di domenica, quando si indossa il vestito della tradizione, forse appena uscita dalla messa.

“avete mangiato lo stinco di maiale in quella domenica e bevuto una Paulaner,” gli dissi, porgendo di nuovo la foto che man mano svaniva nei contorni allontanandosi dalla feritoia.

Sorrise, guardò la foto, sentivo le sua emani ruvide scorrere su quel foglietto di carta, tanto era il silenzio, baciò la foto e la ripose all’interno della divisa, nel lato del cuore.

“come fai a saperlo?”

Sorrisi anche io e tornai a guardare fuori, era davvero una bella notte di luna piena.

Alla nostra sinistra l’abbazia, o quello che ne rimaneva, sembrava un lenzuolo strappato in un momento di follia, steso ad asciugare.

Per tanto tempo non sarebbero potuti andare a messa lì, che follia quella distruzione; noi qui, arroccati su questa roccia e tutta la loro 
potenza scatenarsi a poca distanza.

Per centinaia di anni era stata un riferimento di fede e pace ed ora subiva le conseguenze di una ritirata che ci obbligava a cedere il terreno un centimetro alla volta, chissà quanto tempo ci avremmo messo a tornare in Germania e chissà se lo stesso tipo di trattamento lo stavano riservando alla nostra nazione.

Alcune volte riflettevo ed arrivavo alla conclusione che stavamo ricevendo, con gli interessi, quello che avevamo dato, ma non potevo dirlo a nessuno, nemmeno scriverlo, sapevo che molti fra di noi lo pensavano, ma eravamo Fallschirmjäger, l’elite dell’esercito Germanico, dovevamo trovare dentro di noi la forza per combattere e resistere, nessuno ci avrebbe dato una mano, eravamo solo noi, ma eravamo i migliori, non contava più essere dalla parte dei buoni o dei cattivi, non potevamo più tornare indietro.

In ogni guerra c’è un punto di non ritorno, non puoi più fermarti, il tempo della mediazione, della trattativa, fra le poltrone in alto, finisce e parlano solo le armi e ad imbracciarle sono quelli che in tutto il tempo della trattativa sono stati uomini liberi, che in pace andavano a messa la domenica o in qualsiasi altro posto la fantasia gli avrebbe suggerito.

Questi uomini liberi devono indossare un elmetto, un fucile e andare a combattere; alcuni per conquistare delle case, altri per difenderle.

Il tempo della conquista per noi era finito, stavamo lasciando di nuovo tutte le case conquistate e presto saremmo tornati come prima e tutti i camerati caduti non avrebbero più avuto senso, forse solo nella memoria di coloro che vi hanno combattuto e di pochi altri che un giorno sarebbero tornati su queste colline per capire cosa accadde in quell’inverno del ‘44, speravo solo che avessero avuto un pensiero anche per noi..

“pensi usciremo da qui?” 

mi chiese il camerata nella tana, facendomi tornare nella realtà.

“non lo so, ma in qualche modo usciremo; un Fallschirmjäger può uscire da qui in tre modi, ferito grave, prigioniero o morto!”

Fermò di colpo la mano sul nastro della mitragliatrice poggiandolo sulle gambe, la sua testa scivolò all’indietro sulle rocce della tana.. avevo detto quello che non voleva sentire.

Sembrava così forte nella sua armatura, così forte nella sua preparazione di soldato, eppure era debole e fragile.

“io vorrei rivederla”; 

il ragazzo che era in lui stava uscendo man mano fuori, la divisa a volte è un guscio dove ci nascondiamo e quando sei da solo o con poche persone esce fuori l’uomo o il bambino che è in te.

“tutti abbiamo qualcuno da rivedere”, 

sapevo che quella risposta era molto cruda, ma volevo che non si sentisse il solo a desiderare di rivedere qualcuno.

“tu sei sposato?”
 mi chiese.

“si” risposi, 

“ho seguito le indicazioni del Fuhrer caro mio, ho sposato un ariana ed abbiamo cercato di fare figli per migliorare la razza”, 

presi dal tascapane un pezzo di pagnotta di quel quarto che mi spettava, era un modo per distrarmi dalle risposte che avrei dovuto dare in seguito…

“e ci siete riusciti?”

Lo sapevo, dovevo dare quella risposta…

“abbiamo scoperto che non posso darne, sono un Ariano difettoso..io”
“un Fallschirmjäger che vola nel cielo, il migliore fra tutti i soldati della Wehrmacht, non può dare figli alla propria moglie”

“ma non è così grave” 

cercava di rincuorarmi

“lascia stare” 

risposi, volevo troncare quel ragionamento.

Vedemmo a quel punto un colore nel cielo, una luce verde, il segnale era evidente ed i colpi che sentivamo in lontananza erano diretti verso di noi, bisognava raggiungere il ricovero ed aspettare il bombardamento.

“fuori! Fuori!!

La vita e la morte in quegli attimi è legata alla velocità che si ha nel raggiungere il rifugio ed alla fortuna che una granata non cada nella buca o nelle vicinanze.

Lasciammo lì solo alcune cose, prendemmo la mitragliatrice le granate ed i caricatori ed uscimmo di nuovo, in quella notte di luna piena, la luce fuori era fortissima, se ci fosse stato un solo cecchino appostato ci avrebbe fatto fuori in pochi minuti.

Correre con le spalle rivolte al nemico non è bello, mentre corri, sei in attesa della vampata di calore improvvisa, del metallo che entra nella carne e pone fine alla tua esistenza, la corsa può terminare in un’ istante e non avrai mai visto in faccia il tuo nemico.

Per fortuna arrivammo al rifugio già pieno di altri Parà, fu bello ritrovarsi, per qualche secondo tornammo uomini con le passioni e gli affetti.

Il bombardamento arrivò preciso e puntuale, i tempi di arrivo delle granate ormai erano risaputi, l’inferno si scatenò su quella parte di collina, ma la luna sopra di noi sembrava non curarsene, nella dimensione del tempo e dello spazio, quello che ci stava accadendo era un’ istante.

Ma in quella notte gli scoppi erano più vivi, la luna illuminava il campo di battaglia e vedevi perfettamente dove cadevano le granate.

Eravamo abituati a quella situazione, solo gli scoppi più vicini ci lasciavano per qualche minuto storditi e la polvere ed il fumo raggiunsero subito la nostra grotta.

La luce della luna filtrava dall’apertura della grotta e nel fascio blu, i nostri corpi avvolti dal fumo, sembravano fantasmi e forse lo erano già considerato quello che ci stava piovendo addosso.

Quando tutto cessò, scattammo fuori, senza un saluto, uno sguardo, ognuno doveva tornare subito alla sua tana, se questa c’èra ancora; di li a poco avrebbero attaccato, convinti di averci fiaccato.

La nostra tana era in parte crollata, ma l’ingresso era libero e vi entrammo con qualche difficoltà, eravamo più stetti di quando l’avevamo lasciata, posizionammo la mitragliatrice inserimmo il nastro e rimanemmo in attesa guardando di fronte a noi, mi posizionai sulla linea di tiro e posi l’arma in orizzontale perfettamente allineata e fissata a me.

L’attesa era ogni volta stressante, ogni volta pensi sia l’ultima, ma adesso non c’èra molto tempo per pensare ed il ragazzo accanto a me, nel suo essere così giovane mi dava la forza per continuare, mentre io per lui ero la sicurezza che tutto sarebbe andato bene.
Era quella fratellanza, quella comunanza di intenti che ci faceva andare avanti ed affrontare tutto.

Nella concitazione della sera, ci eravamo dimenticati di mangiare quel poco che ci avevano dato, le nostre razioni erano ornai fredde, le avremmo mangiate dopo, se uscivamo vivi da quell’ennesima notte.

Arrivarono all’improvviso, erano figure che si muovevano lente, forse nella consapevolezza di non essere viste, ma la notte era troppo illuminata per non essere viste, la mattanza stava per iniziare, vidi gli occhi carichi di apprensione del ragazzo accanto a me e gli feci un cenno con il capo in modo da tranquillizzarlo, l’immagine del natale a Francoforte mi venne in mente, non so perché, forse era la mia anima che si aggrappava disperatamente a qualcosa in cui credere a qualcosa che desse la forza in quel momento, so che mi sentii meglio e presi le leve della mitragliatrice aspettando il momento giusto.

Erano corpi piccoli, non erano americani, nemmeno inglesi, anche se il loro elmetto lo era, stavamo combattendo contro mezzo mondo, si erano riuniti tutti lì a Cassino per farci la festa, ma sembrava fino a quel momento che la stavamo facendo noi a loro.

Erano piccoli e tozzi, e la luna non riusciva ad illuminare i loro volti, ormai vicini alla nostra linea di tiro utile, tra noi e loro solo le spire di filo spinato, che martoriate dal tiro di artiglieria sembravano corde di violino rotte che si liberavano nell’aria.

Era giunto il momento, avvicinai la tacca ti tiro al centro del soldato nemico più vicino, premetti la leva di sparo e fui avvolto dalla luce della mitragliatrice Spandau che sparava, brevi raffiche, sentivo il rumore dei bossoli che cadevano sulle pietre, i colpi iniziarono a colpire i fanti che avanzavano, la luce della luna piena mi aiutava nella mira, salivano dalle tenebre, si movevano veloci ed infine cadevano sparendo all’orizzonte, diventando un rilievo del terreno.

Il fumo mi accecava la vista, ma sapevo che erano davanti a me e continuai con le brevi raffiche.

Tutto era un rumore assordante, anche dalle altre tane iniziarono a fare fuoco e per coloro che avanzavano fu l’inferno.

Li vedevamo correre a destra e sinistra, cadere, rialzarsi, poi strisciare ed infine fermarsi nell’ultimo alito di vita.

I mortai iniziarono a martellare quella parte di collina ed i corpi venivano fatti a pezzi, il mio aiutante gridava, indicandomi dove sparare e quando il nastro finiva lo vedevo muoversi con frenesia e precisione, era una macchina efficiente, come lo ero anche io, insieme eravamo un terribile strumento di morte.

Continuavano a venire avanti, erano un torrente in piena che si infrangeva contro una diga rimanendone ai suoi piedi.

Il terreno era talmente ricoperto di soldati caduti che i nuovi non sapevano dove mettere i piedi, mentre ruotavo la Spandau, vidi che nel settore di filo spinato più vicino a noi erano riusciti ad entrare, forse la tana di sinistra era stata distrutta; concentrai tutto il fuoco su quella zona e vidi le figure cadere una ad una, erano tante, cadevano tutte insieme sotto la luce bianca della notte, sentivamo le grida di dolore, le grida di incoraggiamento, cercavano di farsi coraggio per raggiungere la nostra posizione, ma non vi riuscivano, finchè nel buio ne vidi uno più vicino degli altri, mi spostai di pochi centimetri e premetti di nuovo la leva di sparo, i colpi lo centrarono in pieno, si fermò di colpo, era in procinto di saltare il filo spinato, sembrò come assorbire i colpi, rimase qualche secondo immobile, poi alzò la testa e cercò di guardare da quale parte era arrivata per lui la morte. 

Il suo fucile cadde in terra, si ripiegò in avanti scendendo lentamente, finchè il suo corpo andò a posarsi sul filo spinato, nel punto dove era più fitto ed intrecciato, rimanendovi appeso, le sue mani da aperte si strinsero, forse in cerca di sollievo dal dolore, dalle sue spalle vedevamo i fori di uscita dei colpi, le sue gambe cercavano un appiglio utile per rialzarsi da quella posizione, ma poi si fermarono; lentamente distese le sue mani e rimase immobile; l’elmetto gli cadde in terra restando illuminato dalla luna piena di quella notte di morte; avevo appena ucciso l’uomo che avrebbe cambiato la mia vita, ma ancora non lo sapevo.
L’attacco cessò, sentii il fischio di ritirata e tutto tornò come prima, tranne lui, sospeso in aria, davanti al mio orizzonte visivo, al chiaro di quella notte.

La mia guancia era ancora appoggiata alla Spandau, il servente al pezzo era anche lui fermo a fissare quella figura immobile, tutti gli altri erano spariti, inghiottiti dal terreno, ma lui in quella posizione sembrava venirci sempre addosso, ci dava fastidio vederlo, ci faceva sentire colpevoli, riassumeva il dolore della morte per tutti i caduti, le sue braccia aperte sopra il filo spinato, le sue mani ciondolanti ed il corpo perfettamente in linea, proiettavano in terra una forma inconfondibile di una croce.

Non eravamo diventati pazzi, quella era una croce, che spariva al passaggio di qualche nube, o del fumo di qualche granata di mortaio che maciullava quei poveretti.

Rimanemmo in silenzio, l’odore della povere da sparo era intenso e ben presto sarebbe stato sostituito dall’odore dolciastro della morte.

Mi sedetti sul fondo della buca, tolsi l’elmetto ed asciugai il sudore, quanti ne avevo ammazzati oggi? 10? 20? 50? Non lo sapevo, erano spariti nelle curve del terreno come sempre, io di certo ne avevo ucciso uno.

Sotto l’ombra dell’elmetto vidi gli occhi del mio servente, erano lucidi, non era ancora abituato a tanta cattiveria, ma ci avrebbe fatto presto l’abitudine.

“vai a prendere altri caricatori, resto io qui” 

gli dissi, prendendo un pezzo di pane dalla mia sacca.

“ma come fai a mangiare?” 

mi rispose lui.

“fra qualche ora, appena il sole sarà alto verremo assaliti dall’odore della morte, poi non avrò più fame, mangia anche tu.”

Uscì dalla tana senza rispondere, avevamo ragione tutti e due.

L’alba ed il giorno arrivarono presto e la calma prendeva il sopravvento su ogni cosa, non era stato un grande attacco ieri sera, forse volevano verificare le nostre difese o stavano preparando qualcosa di grosso.

L’osservano dalla feritoia, era rimasto lì, troppo vicino a noi per essere raccolto, ma anche gli altri nella valle più in basso erano stati lasciati lì.

L’odore della morte risaliva su quota 593.

Perché non era caduto come gli altri? Perchè non spariva dalla mia vista? Doveva proprio rimanere appeso davanti alla mia tana?

Chi era?

Scopri al comando che era un soldato di una divisione Indiana, era incredibile da quanta distanza era venuto a combattere e morire.

La sua vista era una costante nei giorni successivi, scendevamo e 
risalivamo da quota 593 e lui era sempre lì.

Nelle ore del giorno passate in silenzio dentro la tana, non potevamo non pensare a lui, era davanti a noi e si stava decomponendo alla nostra vista aggiungendo orrore su orrore; vedevamo la sua divisa sgonfiarsi, cedere, man mano che la carne perdeva di consistenza.

Iniziò in quel momento a venirci l’idea di seppellire quel soldato, forse volevamo nasconderlo alla nostra vista o forse stavamo cambiando come persone, ci sentivamo uniti in quell’idea anche se non sapevamo come realizzarla.

L’occasione ci venne durante un pausa nei combattimenti, quando vedemmo due nostri infermieri soccorrere alcuni dei nostri e dei loro feriti.

Avevano solo un drappo bianco ed un bastone, questo bastava a non essere centrati da un cecchino o ricevere una salva di mortaio di benvenuto.

Sembrava assurdo quel nostro pensiero, avevamo ucciso all’inizio di quella collina, decine e decine di soldati e forse ne avremmo uccisi ancora altri, ma quel soldato appeso al filo spinato, che cercava disperatamente di raggiungere, nella sua decomposizione, la madre terra, ci aveva toccati nell’animo.

“io vado” 
dissi al mio servente,

“vengo anche io” 
mi rispose

“non possiamo lasciare la tana senza difesa, puoi coprirmi le spalle nel caso dovessi tornare di corsa”

Fece un cenno di conferma con la testa e si mise ai piedi della MG.

Uscii nella notte dalla tana ed iniziai a strisciare verso il basso, verso il filo spinato e quel nostro amico di cui non sapevamo nulla.

Stavo rischiando la vita per seppellire un nemico! Se mi avessero visto avrei rischiato la corte marziale, ma volevo farlo, era più forte di me.

Raggiunsi il corpo del caduto, ed iniziai lentamente ad alzarmi, era il momento più difficile, se mi avessero visto avrei fatto compagnia al mio amico sconosciuto.

Non successe nulla, ho pensato, negli anni successivi, che qualcuno mi avesse visto ma capì quello che stavo facendo.

Il corpo era morbido ed emetteva un fetore terribile di decomposizione, la carne ormai era decomposta nei colori che difficilmente si possono descrivere, cercai di tirarlo su, ma veniva via a fatica, i suoi tessuti ormai si strappavano ad ogni movimento, decisi quindi di spostarlo solo di pochi metri, dove il terreno offriva la possibilità di un minimo di sepoltura, feci una piccola buca e lo raccolsi al suo interno; nel muoverlo mi accorsi che il suo zainetto era rimasto fuori, ero indeciso se lasciarlo con lui o portarlo con me.

Chissà forse al suo interno avrei trovato i suoi documenti e saputo chi era.

Ricoprii la buca con la stessa terra che avevo tolto presi un po’ dei sassi che erano tutto intorno per evidenziare quella sepoltura, li raccoglievo e riponevo con calma per paura di produrre rumori che avrebbero scoperto la mia posizione, per ultimo presi il suo elmetto e lo posi in alto sui sassi.

Ero soddisfatto, la paura era cessata, la scarica di adrenalina mi stava dando aiuto, presi un po’ d’erba e mi pulii le mani, l’odore della morte aveva attaccato tutta la mia divisa e le mie mani e quella poca erba fu di sollievo, presi lo zaino e scivolai di nuovo verso la tana.

L’alba ormai stava per arrivare e aspettavamo il momento di luce per aprire lo zaino del nostro amico.

Quando la luce lo consentì, lo aprimmo, vi erano caricatori, qualche bomba a mano, dei calzini di ricambio, un pacchetto di medicazione, ed un portadocumenti avvolto in un telo, forse per proteggerlo dalle intemperie.

Restammo per un attimo immobili, stavamo per scoprire chi era il nostro nemico.

Aprimmo quei lembi di stoffa e la pelle di quel portadocumenti, stavamo per entrare nella vita e negli affetti di quella persona alla quale avevamo strappato la vita.

Era un soldato semplice della 4a Divisione Indiana.

Tra le carte trovammo alcune lettere ricevute da casa ed una non ancora terminata, forse iniziata la notte dell’attacco.

Alla fine dei fogli di carta vi era una foto, conservata all’interno di altra carta, forse per paura di essere rovinata; aprimmo quel foglio di carta e ci sembro il mondo cadere addosso.

Vi era una piccola donna minuta sorridente con un bambino ai suoi piedi ed un altro in braccio, a giudicare dal piccolo è probabile che non lo avesse mai conosciuto e quella doveva essere una delle prime foto ricevute.

Malgrado non conoscessimo la sua lingua, fu facile capire che il nome scritto sulla foto era quello del piccoletto.

Chiudemmo tutto con calma, come per non rovinarlo, e lo riponemmo dentro le stoffe, ed infine lo misi nel mio tascapane.

Rimanemmo in silenzio per un po’, sapevamo di condividere le stesse sensazioni, quell’uomo, che non conoscevamo, aveva riassunto tutti i desideri che avevamo entrambi; una donna, un amore, una vita in pace e dei figli.

Forse era già in viaggio la lettera che informava la famiglia del suo decesso sulle colline di Cassino.

Come avrebbero sfamato quei due bambini? Come avrebbe sopportato quella perdita?

Eravamo pronti su quella tana ad uccidere altri uomini e ci stavamo ponendo delle domande su come i familiari di un caduto sarebbero potuti sopravvivere; ma ogni notte la nostra Spandau era pronta a mietere altre vittime; eravamo divisi fra il nostro dovere di soldati e l’essere uomini, creature fatte a somiglianza di Dio e così fu per altri 3 mesi, quando arrivò l’ordine di ritirarci.

Lasciammo quella notte la nostra tana e poi la grotta che fu fatta saltare in aria, io e il mio servente discendemmo la via della morte, la battaglia era persa, il fronte aveva ceduto e ci saremmo arroccati su una nuova linea difensiva.

Ogni tanto, scendendo, il nostro sguardo ritornava su quella collina e su quelle notti passate nella tana; ma quella notte di luna piena ci aveva cambiato nell’animo, quel soldato ucciso, appeso a quel filo spinato, ci aveva raccontato nel suo muto silenzio tante cose, fino a farci conoscere la sua famiglia.

Quell’immagine scura a forma di croce, in contrasto con la luce della luna piena ci fece compagnia per tutto il resto della campagna d’Italia, fino a quando fummo fatti prigionieri.

Quella collina fu il calvario per tutti noi che la difendemmo e per coloro che la attaccarono, sarebbe stato giusto un giorno issarvi una croce in memoria…

Arrivai all’aeroporto di Francoforte in taxi, mi accompagnava mia nipote, ero emozionato, ma la mia età non lo lasciava vedere, la mia testa guardava troppo spesso in basso, aggrappata come il resto del corpo ad un bastone.

Lentamente raggiunsi la grande sala d’aspetto.

Com’èra cambiata Francoforte, non era più quella di una volta, adesso tutto era moderno, tutto era nuovo ed al passo con i tempi.

Mi fece sedere all’inizio di una lunga fila di sedili vuoti, dietro di me altre file vuote ed una grande vetrata tutta d’acciaio.

Mi disse di aspettare lì, giusto il tempo per verificare l’arrivo previsto del volo.

Rimasi solo in attesa, seduto e aggrappato al mio bastone,avevo freddo, il cappotto ormai non bastava più per proteggere le mie ossa ed i piedi erano completamente gelati.

Ogni volta che provavo freddo il pensiero tornava sempre a quell’inverno del ’44 in Italia e rimanevo assorto nei miei ricordi ovunque mi trovavo, ma il luogo che preferivo di più era nella casina degli attrezzi, in giardino, un luogo piccolo e angusto, senza riscaldamento, con una sola piccola finestra nel retro che dava verso la campagna, da quella piccola finestra potevo scorgere solo una porzione della valle ma vi restavo per ore, ed il pensiero ritornava sempre alla mia tana alle pendici di quota 593, a quel filo di ferro spinato ed a quell’uomo appeso sopra. 

Ricordavo tutti i camerati che non erano tornati e che avevo lasciato là e mi sentivo solo.

In quella casina, per me una postazione di avvistamento, non accadeva mai nulla, vedevo salire e scendere il sole, passare le stagioni e gli alberi che si coloravano di verde per poi perdere le foglie.

I nipotini venivano spesso a cercarmi per dirmi che era l’ora del pranzo e della cena, sapevano dove trovarmi ed io facevo fatica a far sembrare tutto normale; ufficialmente stavo riparando una vecchia sedia, ma era solo una illusione.

Il grande salone dell’aeroporto era vuoto, un pomeriggio calmo, non c’èrano molti turisti a Francoforte, fuori nevicava ed ai pochi passanti dovevo essere sembrato un vecchio barbone abbandonato in cerca di calore.

Due poliziotti si avvicinarono per chiedermi i documenti, li fornii non senza qualche difficoltà, la mia mano tremava e facevo fatica a tenermi aggrappato al bastone solo con l’altra, ma riuscii ad alzarmi e porgere il documento.

Lo vidi aprire la custodia in pelle, leggere ed alzare lentamente gli occhi.

“questa è una croce di ferro?”

“si”, 
risposi ,

“è una croce di ferro di seconda classe, dove l’ha meritata?” 

mi chiese, facendo scorrere lentamente la mano sulla superficie della medaglia.

“in Italia” 

gli risposi.

Mi consegnò lentamente la custodia e rimase a guardarmi.
Il mio silenzio e lo sguardo fisso immobile devono aver fatto effetto, perché mi disse,

“possiamo fare qualcosa per lei?”

“si, grazie, aiutatemi a sedermi di nuovo sulla poltrona”

Si avvicinarono a me e prendendomi con delicatezza mi aiutarono di nuovo a sedermi.

Li ringraziai e loro, salutandomi come si conviene ai militari, tornarono sui loro passi.

Rimasi per un po’ con il documento aperto in mano, con la croce in bella vista e per sfondo una mia foto in bianco e nero, scattata a Cassino, davanti alla tana della Spandau.

Alla fine, mi ero meritato un po’ di rispetto grazie a quella croce, se l’avessi lasciata a casa mi avrebbero scambiato per un barbone in cerca di calore all’aeroporto.

Non feci in tempo a riporre la tessera che trovai di nuovo davanti a me il poliziotto con una tazza calda di caffè tedesco ed un brezel.

Mi sorrise dicendo 

“così si scalda un po’.. spero gradirà”

Lo ringraziai, ed iniziai a scaldarmi con il caffè.
Ero onorato di quel gesto, un gesto semplice, ma in fondo quello che mi faceva piacere era il rispetto che avevano avuto per me.
Era stato difficile il rientro in Germania e scoprire le atrocità commesse dal nazismo, per me che ero solo un soldato contavano solo alcuni valori, ma erano gli stessi del nemico, di questo ne ero sicuro.

In fondo al corridoio dell’aeroporto vidi arrivare 3 figure verso di me, 

“ecco, ci siamo” 

mi dissi.

Riconobbi mia nipote, ed immaginai subito chi fosse una delle altre due persone accanto, era stata la mia speranza di riconciliazione con il mondo in tutti questi anni, l’ultimo pezzetto di quel mosaico che ormai durava da quasi 70 anni.

Si avvicinarono a me, mi aiutarono ad alzarmi e mi trovai di fronte a lui.

Era il figlio dell’uomo che avevo ucciso a Cassino, quello rimasto sul filo spinato a decomporsi e che seppellii rischiando la vita. 

Oggi era un uomo della terza età, con i capelli bianchi ed un passo migliore del mio, lo guardai, ci guardammo ed il suo sorriso fu per me l’alba di una nuova vita.

Per tutti questi anni, dopo la lettera scritta ai familiari al mio rientro in patria, dopo il campo di prigionia, mi ero offerto di aiutare economicamente la sua famiglia e loro accettarono dopo un primo diniego.

Erano piccoli versamenti in marchi, ma grandi somme nella loro valuta.

Quei pochi soldi aiutarono quella vedova ad allevare i figli, mandarli a scuola e fargli avere una vita normale, malgrado le difficoltà della mancanza del padre.

Quei figli erano cresciuti, si erano sposati, avevano avuto la loro vita, ma avevano perso il contatto con me, ed io ero vissuto nella speranza un giorno di poterli conoscere.

Quel giorno era arrivato ed ora uno di quei figli era davanti a me, lo abbracciai e lui fece lo stesso con me. Mi diede qualche pacca sulla spalla e ci guardammo di nuovo stringendoci la mano.

“ho fatto solo il mio dovere di soldato” 

gli dissi, mentre gli stringevo le mani guardando in basso come per chiedere scusa della mia azione.

“hai fatto molto di più” 

mi rispose in Inglese e fu tradotto da mia nipote.

Iniziammo a camminare insieme nella grande sala dell’aeroporto, eravamo due mondi che si incontravano dopo quasi 70 anni, avevamo tante cose da dirci, da raccontarci, tanto era il vuoto da riempire nelle nostre memorie.

I giorni a Francoforte passarono veloci, nella casina degli attrezzi ospitai anche il mio amico e gli raccontai tutto quanto accadde in quella notte di luna piena del 1944, quella finestrella era utile per simulare gesti e movimenti.

Mangiammo insieme, dormimmo sotto lo stesso tetto ed andammo in chiesa insieme la domenica, fino alla sua ripartenza.

Non so se l’avrei rivisto, ma ero contento, mi si leggeva in volto.

Avevo tre sogni da realizzare, mi dissi durante la prigionia in Italia, se fossi uscito vivo da quell’inferno; 
aiutare i figli di quell’uomo che avevo ucciso, vivere in pace il resto dei miei giorni e per ultimo raggiungere i miei camerati.

I primi due li avevo realizzati, adesso dovevo solo attendere di realizzare il terzo, sentivo che non mancava molto, il corpo a volte lancia dei messaggi e questo mio corpo ne aveva viste e sopportate tante.

Spero solo esaudiranno il mio desiderio, vorrei che le mie ceneri siano sparse a Cassino, a quota 593, l’ho chiesto solo a mia nipote.

Per il resto non sta più a me decidere tra l’infermo, il purgatorio o il paradiso.

Credo di averli meritati tutti e tre.

Storia immaginaria, scritta dopo un’escursione notturna a quota 593, dedicato a tutti coloro che percorrono i vecchi sentieri di guerra con l’animo di chi vuole onorare e ricordare.

Luigi Settimi

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