Memorie di un celoviek Bersagliere: Capitolo 1

Ringraziamo l’associazione culturale “il Mascellaro” di San Giovanni in Persiceto per averci concesso la possibilità di pubblicare il diario di un Bersagliere.
Memorie di un celoviek bersagliere


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Autore: Bruno Cecchini
Collana: Kuritza
Anno: 2008

Il libro contiene il memoriale che Bruno Cecchini (1921-1999), sottotenente nel 3° Reggimento Bersaglieri durante la campagna di Russia, scrisse vent’anni fa per ricordare i giorni del ripiegamento dalla linea del Don e gli anni della prigionia nel Campo sovietico n. 160 di Suzdal’. 

La battaglia più sanguinosa del ripiegamento, ampiamente descritta da Cecchini, si combattè nel tentativo di conquistare il villaggio di Meskov: furono i bersaglieri del 3° Reggimento a muovere all’assalto sotto il fuoco dei mortai e dei cannoni nemici attraverso una spianata ricoperta di neve. I russi lasciano le posizioni e si ritirano in una piccola chiesa sconsacrata su un’altura vicina, che da quel momento diviene il fulcro della battaglia. La chiesa viene presa e perduta più volte, fintanto che in rinforzo dei sovietici sopraggiungono i carri armati. Nell’azione il 70% degli effettivi del reggimento è perduto. Le postazioni vengono mantenute sino all’alba del giorno successivo, quando i superstiti ripiegano verso Kalmikov, a dieci chilometri da Meskov, dove si rendono conto di essere rimasti del tutto isolati. Sono le prime ore del mattino del 21 gennaio 1943 e quel che resta del 3° Reggimento viene completamente accerchiato dal nemico che incombe dalle alture circostanti: attaccato dai mortai, dai carri armati e dalla fanteria russa, è sommerso e distrutto in pochi e brevi scontri. I pochi superstiti vengono catturati e incolonnati; poche ore più tardi inizia la marcia di trasferimento verso i lager di Stalin.

Il Campo 160 di Suzdal’, dove fu internato Cecchini, a 300 chilometri a nordest di Mosca, era destinato agli ufficiali di tutte le nazionalità (compresi i cappellani militari come la medaglia d’oro don Enelio Franzoni). Il libro descrive la vita dei prigionieri nel campo, segnata da fame, freddo e malattie non curate. La sua particolarità sta però nella minuzia con cui l’autore ricorda la fitta azione dei propagandisti politici sovietici e italiani per convincere i prigionieri ad aderire al comunismo. A tale scopo tennero interrogatori con richieste di sottoscrizioni di appelli al popolo italiano, conferenze e attività culturali con discussioni pubbliche. Cecchini fu tra gli irriducibili oppositori del sistema del lavaggio del cervello, scegliendo di mantenere fede al giuramento militare prestato e addirittura rinforzandolo con un ulteriore patto di fedeltà alla patria all’interno di un ristretto gruppo di prigionieri; perciò fu tra coloro contro cui le autorità sovietiche si accanirono in modo particolare, al punto da inserirlo in un elenco di cinquanta ufficiali che durante il viaggio di rimpatrio, nell’estate 1946, furono ulteriormente trattenuti in una località romena affinchè non ritornassero in Italia assieme agli altri colleghi.

La propaganda nei campi sovietici non si limitò a combattere il regime fascista ma si scagliò ferocemente contro l’intero sistema occidentale, ovvero contro la borghesia, la democrazia, il capitalismo e la religione, al fine di persuadere i prigionieri che solo il comunismo, una volta esportato dall’URSS nel resto d’Europa, avrebbe garantito a tutti la libertà, l’uguaglianza e il benessere materiale e spirituale. Le autorità sovietiche, spalleggiate dai militanti italiani, intendevano preparare una largo gruppo di prigionieri che dopo il rimpatrio si dimostrassero aperti alla politica dell’URSS e alle sue richieste di fare attività spionistica. Di conseguenza risulta (questa è l’opinione di Ferioli) che i militari italiani che resistettero alle pressioni dei propagandisti si resero interpreti di una vera e propria resistenza senz’armi, ispirata dalla fedeltà al giuramento militare e dal patriottismo.

L’apporto del memoriale di Cecchini, che di quella resistenza fu uno degli animatori, contribuisce oggi a una migliore conoscenza di quei fatti storici troppo spesso affogati nel silenzio o lasciati alle strumentalizzazioni politiche di parte.

L’edizione del memoriale è curata da Alessandro Ferioli, che è anche l’autore dell’ampia e documentata introduzione storiografica che apre il volume.

INDICE

• Un testimone della resistenza dei prigionieri italiani in Russia

      di Alessandro Ferioli

• La mia storia

• L’inverno 1942 nell’impero dei Soviet: accerchiati dall’Armata Rossa

• 17 dicembre: i russi all’attacco delle nostre retrovie

• 20 dicembre: l’assalto alle linee nemiche a Meskov e la ritirata su Konovalov-Kalmikov

• Prigioniero dell’Armata Rossa

• Campo 160, Suzdal’: fame atroce e propaganda asfissiante

• Di che nobile carta le carte proletarie: due articoli per L’Alba

• I celoviek boscaioli e gli uomini-cavalli

• Il primo colloquio interrelazionario con la nomenklatura e l’appello per Trieste alla Iugoslavia

• La vita al Campo 160: che fisico, il fisico degli scampati, e che fame la fame!

• Operazione Cornacchie

• L’associazione segreta e il giuramento dei disperati

• Rimpatriano i soldati italiani scampati al massacro; restano i 570 ufficiali

• Suzdal’ addio

• A Odessa

• Sighet Maramaros e l’ultima vigliaccata dei comunisti russi e nostrani

• “Signori ufficiali…”

• 19 luglio 1946: fine di un incubo

• Note

• Indice

Recensione su Fiamma Cremisi:
Tratto da Fiamma Cremisi, n. 2/3 (2008), p. 39
   (periodico nazionale della Ass. Naz. Bersaglieri)
Carneade, chi era costui? Questo il personaggio della nota frase che arrovella Don Abbondio nei Promessi Sposi e celoviek è il sostantivo che incuriosisce il lettore leggendo il titolo di questo volume sulla prigionia in Russia sofferta dal Sottotenente dei Bersaglieri Bruno Cecchini – celoviek = un uomo. Un Uomo sì, con la U maiuscola; rimpatriato nel luglio 1946, dopo oltre tre anni e mezzo di prigionia, aveva percorso nell’amministrazione scolastica di Bologna tutta la carriera d’insegnante fino a divenire direttore didattico e concludere la sua onorata carriera con una Medaglia d’Oro conferitagli dal Ministero della Pubblica Istruzione.
Venuto a mancare nel 1999, dopo essere stato per alcuni anni presidente della Sezione bolognese dell’ANB, Cecchini aveva conservato un memoriale dattiloscritto che soltanto ora ha visto la luce grazie alle insistenze sulla vedova, Signora Luisa, del Bersagliere Alessandro Ferioli e del Dr. Carlo Romoli, peraltro suo compagno di prigionia ed Autore delle illustrazioni di copertina.
L’interessante introduzione di Ferioli ripercorre con un’attenta disanima la storia del 3° Bersaglieri in terra di Russia con la Divisione Celere Principe Amedeo Duca d’Aosta e succintamente, ma con grande aderenza agli avvenimenti, narra le vicende dell’avanzata italo-tedesca, i combattimenti sul fiume Dnjeper, a Gorlowka e Rykowo fino alla battaglia di Natale del 1941 per poi proseguire, sulla base di una vasta documentazione bibliografica – oltre ottanta le note – alla descrizione della rapida marcia verso il Don, prima con il CSIR, poi con l’ARMIR fino alla metà di novembre del 1942 ed all’offensiva sovietica denominata “Piccolo Saturno” che coinvolse e si abbattè sulla linea del fronte tenuto dalla Celere.
Nel Diario si susseguono le citazioni di tante località russe: Ivanovka, Millerovo, Voroscilovgrad, il Donez, Serafimomovich fino al ripiegamento ed alla sua cattura, ma le memorie del nostro Celoviek bersagliere si riferiscono in particolare alla battaglia più sanguinosa sostenuta dal 3°, quella per la conquista del villaggio di Meskov e alla perdita di oltre il 70% degli effettivi; i resti, sopraffatti nel tentativo di raggiungere Kalmikov e catturati vennero incolonnati ed avviati a piedi verso i Lager di Stalin. Si legga a proposito il capitoletto: “20 dicembre l’assalto alle linee nemiche a Meskov e la ritirata su Kolovalov-Kalmikov” (pag. 37) e quello successivo “Prigioniero dell’Armata Rossa”, con lo spassoso riferimento al mongolo che lo perquisisce rinvenendo una …pila tascabile e quello relativo alla cattura delle cornacchie e dei topolini, la fame era tanta! Il Cecchini, internato nel campo 160 di Suzdal, riservato agli ufficiali di tutte le nazionalità, descrive minutamente la vita dei prigionieri, segnata da freddo, fame, malattie e anche e soprattutto dalla fitta azione dei propagandisti politici sovietici e …italiani! tesa a convincere i prigionieri ad aderire al comunismo.
Cecchini fu uno dei molti ed irriducibili ufficiali (vds. pag. 143) ed il suo Diario descrive la propaganda nei campi sovietici, non limitata a combattere il regime fascista, ma ad infierire contro il sistema occidentale, contro la democrazia, il capitalismo e la religione per persuadere i prigionieri che solo il comunismo avrebbe garantito a tutti la libertà, l’eguaglianza ed il benessere materiale e spirituale.
I suoi ricordi sono permeati dal senso di solidarietà e di generosa dedizione tra compagni di sventura duramente provati dal freddo, dalla fame, dalla sete, dalle malattie, dalle lunghe marce a 40 sottozero e dalla resistenza alla propaganda.
Non privo di qualità letterarie il Diario si sofferma sugli ultimi giorni di prigionia, quelli antecedenti al rimpatrio, al 25 aprile del 1946 e alla partenza per Odessa, la tappa a Sighet e la beffa sofferta da una cinquantina di ufficiali, forse perché i più recalcitranti alla propaganda sovietica e fra questi molti nomi noti quali: Salvatore Pontieri, Don Enelio Franzoni, Corcione Domenico, lo stesso Cecchini, Padre Ganascia alias Michele D’Auria e Don Agostino Bonadeo, Cappellano carismatico dell’Associazione Nazionale Bersaglieri. Furono condannati a sentire, come un incubo, fino al 19 luglio 1946: “davai bistrày davai”.

Capitolo 1 – La mia storia

Non sono, in verità, né un valente scrittore (mediocre è dire molto, anzi troppo) né uno storico eccellente; no, no, molto di molto meno, onestamente. Non credo pure d’essere un santo timorato, certamente che no; o un triste peccatore condannato, chissà. Forse ci sono: può darsi ch’io sia un vile od un eroe? Mah! In fin dei conti, oggi, che differenza fa?

Tanto per non sbagliarmi e in questo zibaldone dico che non son nulla, anzi poco di niente; di una cosa però son certo veramente: ancor sana ho la mente, la memoria è di ferro, né m’incuton spavento l’ulular e il belar di certa gente, nostrana o del potente.

Alt! Prima di continuare, scrivano mezza tacca e sconosciuto, vuoi dirci almen chi sei e donde sei venuto? Domanda più che giusta, legittima e opportuna alla quale rispondo senza remora alcuna. Sono un celoviek qualunque scampato ad un massacro che un tanto amato Padre, Stalin denominato, compì volutamente mezzo secolo fa in nome della pace e per la libertà, dei fessi proletari, comunisti di razza, per la verità. Togliatti e i fuoriusciti che in quel tempo lontano eran graditi ospiti, meglio vil servitori, del Capo kolkosiano, non aprirono bocca per salvare i fratelli, anzi, si adoperaron per convertire quelli ch’eran sopravvissuti a quell’eccidio infame voluto da quel despota, padrone del reame.

Il mio nome? Nessuno, forse Uno, Centomila di certo. E i morti dell’Armir? Dio mio, non ne parliamo, cambiamo d’argomento! Quei morti son spariti, portati via dal vento ed hanno ora dimora lassù nel firmamento. Morti scomodi quelli, o popolo perdente; morti chissà dove, e seppur morti, quando? Mormora e lagna il veritier sapiente sbracandosi in ossequi e la viscida coda dimenando.

Mai morti quelli per la Storia, le istorie e le storielle; niet kaput (non morti) per le favole, fiabe o zirudelle2. Morti diversi da tutti gli altri morti e da dimenticare per non minar la gloria del Nume popolare, del vincitor potente che i vinti con gli ignavi e i servi tutto fare devono in ogni tempo e ad ogni circostanza riverire e ossequiare.

La mia storia? Una triste, amara, indimenticabile, forse inimmaginabile storia vissuta, all’inizio dei verdi vent’anni, in un grande, rosseggiante paese da tempo oppresso, con leggi ferree che affondano le ramificate, vischiose radici nel più basso e oscuro medioevo, da un tangheraccio bolscevico i cui geni eran pregni delle nefandezze di Attila e della barbara ferocia di Genghiz khan; un umanoide disumano verniciato da essere umano che grondava sangue da tutti i pori, nessuno escluso.

È la crudele ma vera storia vissuta da un giovane ufficiale del 3° Reggimento Bersaglieri, preso dall’università e volontariamente inviato da un ridicolo, piccolo ma potente caporale, e in nome e per conto della sacra Patria, l’Italia, appunto, sul fronte di guerra russo nell’estate del lontano anno 1942 (Armir: ansa del Don, Kantamirovka, Migulinskaja, Sagrabelovka, Meskov, Konovalov). Ferito durante l’assalto alla piazzaforte di Meskov il 21 dicembre del 1942 e catturato il giorno dopo dall’Armata Rossa (le marce del davai, il treno del pianto e della morte, Vladimir, Suzdal’, il tifo petecchiale, la fame, la sete, il gelo, le angherie di ogni sorta, gli aguzzini foresti e nostrani, l’Nkvd4, Odessa), rimase poi prigioniero per lunghi anni in un lager dell’Urss (Suzdal’, Campo n. 160). Infine, dopo il rientro in Italia dei pochi soldati e ufficiali scampati al massacro staliniano, rientro avvenuto nel tardo 1945-inizio del ’46, ancora trattenuto nell’Urss quale uno dei cosiddetti ufficiali di Vienna (Sighet, Budapest, Vienna, Tarvisio, Milano) e infine ritornato a casa da quell’inferno rosso sul finire dell’anno di grazia 1946.

Narro questo incredibile calvario umano, spinto a ciò non certo da una presuntuosa, gretta vanagloria né da un ridicolo protagonismo bischereccio così in uso oggigiorno. No, no, soltanto per rispetto verso vecchi valori e poveri sentimenti in uso in un tempo oramai anni luce distante ma tutt’ora vivi nella mente e nel cuore di coloro che ebbero la sventura di vivere quell’immane tragedia che fu la guerra in Russia; per ricordare all’Italia e agli italiani immemori quei centomila fratelli caduti al fronte o in prigionia che a tutt’oggi dormono il sonno dei morti nelle grandi fosse comuni sparse nell’immensa steppa gelata dell’Urss, dimenticati da tutti, svaniti nell’oblio dei ricordi, defraudati anche di una lacrima, di una croce, di un fiore, omaggi questi dovuti, nel consesso delle umane genti, ai morti, a tutti i morti di tutte le guerre. Per ravvivare quel senso di amicizia che mi lega ai pochi scampati dall’inferno comunista, sopravvissuti e compatiti, sopportati, nemmeno commiserati dal nostro italico popolo di questa civiltà dei consumi consumati, dove: “ciascuno sta solo sul cuor della terra, trafitto da un raggio di sole… ed è subito sera”; Bel Paese in cui “ognuno vive fuori di ogni relazione, indifferente verso tutti i valori della tradizione e verso gli ideali che ci infuturano; dove le persone obese dal troppo, dal niente e dal tutto hanno voluto salire sopra il tempo e il paradosso è che da tale altezza non riescono a comunicare con nessuno, non dialogano perché non ascoltano, impongono la loro idea e non ascoltando non solo non imparano nulla ma non portano nulla”.

Fragili, cagionevoli individui della “indifferenza totale prodotta dallo spasmodico attivismo che vanno, camminano, corrono per non perdere tempo; corrono per riprendere e guadagnare tempo, passano frettolosi, impetuosi e che non arrivando mai a tutto, mancando loro il tempo, si pongono finalmente fuor dal tempo per sorridere sugli altri che lottano con il tempo; si considerano principio e fine e si esauriscono in un attimo che non è mai presente perché manca sempre del passato e della direzione che guida al domani”. Gente probabilmente sazia, beata, annoiata, angosciata ma che forse non ama più la vita, che odia la vita, o la teme. Chissà!

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